di: Umberto Rovelli 

Umberto Rovelli (Bologna, 1962). Laureato in Architettura, dal 1996 al 2018 è socio di Blue Klein, web agency impegnata nel campo multimediale per la promozione della cultura del progetto su Internet. Dal 2005 dirige la rivista IdeaMagazine.net. Dal 2008 al 2016 cura gli aggiornamenti del web ADI Toscana progettato da Blue Klein. Socio ADI dal 2010 al 2015, è curatore dei volumi MuDeTo Collection I.-V. (MuDeTo, Firenze 2014-'21), Mauro Pasquinelli Designer (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2013) e Interviste sul Progetto (Franco Angeli, Milano 2011). Ha collaborato con le riviste “Op. cit.”, “Juliet Design Magazine”, “Paesaggio Urbano”, “ReportBio”, “Firenze Spettacolo”. Ha pubblicato contributi in: Adriano Piazzesi (Pontecorboli, Firenze 2016); Vincenzo Missanelli. Opere con un'antologia critica (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2015); Antonio Possenti un lungo viaggio (Pacini Fazzi, Lucca 2013); Adriano Piazzesi. Arte nel silenzio (Polistampa, Firenze 2012); Massimo Mariani. Progetti 1980 - 2005 (Verba Volant, London 2005); Labyrinthos (Alinea, Firenze 1994). [x]

Particolarmente in questo millennio, il ruolo attribuito alle macchine è, ad un tempo, deprecato ed esaltato, spesso a sproposito, ma raramente valutando appieno il senso paradossalmente ancillare e insieme dispotico della relazione uomo/macchina. Affrontare i temi sottesi al progetto di alcuni prodotti – come nel caso in questione, la gamma di distributori Domino disegnata dal fiorentino Luciano Valboni per il gruppo Zanussi nel 1988 –, rappresenta pertanto un’occasione per dar modo di cogliere, quasi sul nascere, alcune aporie sul campo, delineando l’emergere crescente di conflitti forse insanabili in settori – quello della “distribuzione automatica alimentare” (vending) in primo luogo, ma non solo – la cui espansione, sia per l’utente che per il progettista, pare prospettare in nuce il declino di rilevanza del paradigma relazionale di una tradizione plurisecolare: quello che ha come centro e tramite l’essere umano. Quest’ultimo protagonista ormai talmente contaminato, mediato, filtrato e insieme respinto dal “non-essere” tecnologico da risultare in molte occasioni un’irriconoscibile e irriconoscente parte in causa. Ovvero, in altri termini, sia per un verso che per l’altro, un attore le cui performance sono ormai criticamente funzione dell’essere – sempre e ovunque – “fuori di sé”.

Come autorevolmente sostenuto da Alberto Bassi, in molti contesti del mondo contemporaneo «le macchine instaurano una relazione commerciale “fredda”, che supera la necessità di rapporto fra due persone, un legame tendenzialmente anonimo, esattamente come l’aspetto degli stessi apparecchi deputati alla vendita. Un’interazione anonima e fredda solo progressivamente “sciolta” dalla presenza di scritte pubblicitarie sulle vending machine. Nello stesso prodotto finiscono allora per assommarsi il minimo di caratterizzazione formale e il massimo di quella comunicativo-pubblicitaria: esempio di totale identificazione fra oggetto e immagine del brand»[01].

[01] Alberto Bassi, Nonoggetti, superoggetti: tre generazioni di vending machine, in “Casabella”, 716, novembre 2003.

Classici esempi di tale binomio paradossale (da un lato l’anomia plastica che “profila” la relazione oggetto/utilizzatore nel mood più sobrio e controllato della fruizione distratta, dall’altra l’enfasi grafica al servizio della massima riconoscibilità del brand aziendale) sono stati, fin da subito, i primi distributori vending conosciuti in Italia: le “Saer” commissionate dai dirigenti Coca Cola a Giuseppe Tremolada nel 1953 e le E61 – antesignane di tutti i distributori automatici di caffé – realizzate dalla Faema di Carlo Ernesto Valente nel 1963. Astraendo da scritte e loghi pubblicitari, le due tipologie risulterebbero pressoché indistinguibili. Nonostante il decennio che le separa e le notevoli differenze prestazionali – la E61 è «un gioiello della elettromeccanica e dell’idraulica» immesso quasi visionariamente «in un settore che ancora (...) non esisteva»[02] –, le due scatole allungate verticalmente non sono che minimamente dotate di affordance (non includono cioè che pochi indizi – struttura, forma, colore, profili, texture reali o percepite – atte a spiegare come vadano usate) e acquisiscono una leggibilità funzionale solo attraverso le legende di cui sono in parte corredate [03].

[02] Alessandro Fontana, Mezzo secolo di vending. storia della distribuzione automatica italiana dal 1963 al 2013, in “AIS/Design Storia e Ricerche”, n. 5 Speciale Expo 2015, AISDesign.org (www.aisdesign.org/aisd/tag/vending-machines)

[03] Non molto diversa, sebbene caratterizzata dall’ampia finestra vetrata centrale, è la percezione dell’altra storica capostipite vending, il distributore snack&food prodotto dalla FAS di Antonio e Santino Adriani a partire dal 1967. Cfr., Alessandro Fontana, Op. cit.

Briosi e squillanti nel loro colore rosso vivo, quei primi distributori – tanto inusuali all’epoca quanto ormai tipici del paesaggio attuale di sale d’attesa, corridoi d’ospedale, sale mensa ed uffici –, palesavano, allora come ora, profili tridimensionali contenuti ed essenziali del tutto analoghi alle coeve nascenti gamme di apparecchiature progettate da Gino Valle a partire dal 1957, le Unirex [04], che – segnando l’avvio del massiccio corso della produzione da incasso – riuscirono a connettere strettamente la sorte dei grandi elettrodomestici alle trasformazioni dell’ambiente cucina [05] finendo con l’estendere nel 1959 il «coordinamento modulare all’intero parco di elettrodomestici per la cucina»[06].

[04] Linee aderenti a quelle ideate dallo stesso autore, ad esempio, per il Zanussi Rex Office di Porcia, nel 1959-61.

[05] Cfr. Lucia Rampino, Evoluzione della competizione e del ruolo del design nel settore dell’elettrodomestico, in Id. (a cura di), Sapere, Immaginare, Fare. Il design d’innovazione per l’elettrodomestico, Edizioni POLI.design, Milano 2004.

[06] Vittorio Gregotti, Il disegno del prodotto industriale, Electa, Milano 1986, p. 322.

Sebbene negli ultimi quarant’anni dell’industrial design, un consolidato storytelling abbia peculiarmente rimarcato il ruolo vincente e “strategico” svolto dalla ricerca formale e dalla sperimentazione estetica – in primo luogo gli “stilemi” mendiniani –, nei riguardi del favore attribuito dai consumatori al prodotto di design, permangono tuttora molti ambiti produttivi nei quali non si ritiene opportuno – come sottolinea Vittorio Gregotti –, scindere la questione della progettazione dell’oggetto dalla speculazione meta-progettuale o sistemica che governa gli obiettivi di massima integrazione delle parti rispetto all’aggregato intero e di sostituibilità fra le diverse parti dell’insieme. Del pari, in altrettanti settori afferenti l’industrial design, il tema plastico non è affatto confinato in una sorta di enclave astratta dalle leggi “strutturanti” del coordinamento dimensionale e dell’uniformazione dei vari elementi in gioco.

Da tutto ciò ne consegue che per consistenti aree produttive – ivi incluse, ovviamente, quelle del vending – la pratica del progetto si trova più frequentemente a rinunciare a molte delle “leve” estetico-plastiche e caratterizzazioni decorative – le stesse considerate “essenziali” dalla sopracitata consolidata narrazione – che pongono in peculiare risalto il portato “emozionale” del singolo articolo rispetto alle “ragioni” dell’abaco più generale e del contesto (produttivo, sociale, economico, ecc.) in cui viene inserito il prodotto. In altri termini, in consistenti aree produttive il progettista è ancora tenuto a “ostentare” – ci si perdoni l’ossimoro – uno stile espressivo che rasenta l’anonimato morfologico e materiale. Costretto a operare in spazi minimi, in questi reparti produttivi, il talento creativo-progettuale s’evidenzia preferibilmente nel silenzio cartesiano della soluzione di dettaglio ovvero nella capacità di eludere e dissimulare piuttosto che esaltare e porre in evidenza. E ciò avviene essenziamente per un motivo semplice ma profondo: perché ancora oggi in tali ambenti industriali, nonostante la “sbornia” di esibizionismi formali, più o meno gratuiti, che ha contagiato buona parte del mercato del design di prodotto [07], la formula “less is more” ha ancora un fondamento e un’efficacia che non ha consistenti rivali.

[07] Spesso risibile per quantità e reale incisività sulle masse.

Come sostiene ancora Bassi, per «la maggioranza dei prodotti anonimi (e parliamo naturalmente solo di quelli rilevanti per qualità e progetto)» gli esiti progettuali apprezzabili in molti ambiti industriali possono essere considerati «frutto di una necessità, di un “dover essere”, cui non manca una propria qualità formale, che ne ha fatto dei riferimenti imprescindibili nella storia degli artefatti»[08]. Certo – e ciò vale in particolare per il vastissimo settore vending dell’occidente evoluto – a prima vista, la cogenza (il “dover essere”) di tipologie particolarmente compromesse con un imperativo di servizio – peraltro rivolto di preferenza al terziario avanzato – non emerge nel suo senso specificamente etico, così evidente e immediata. Ma per convincersi, non solo dell’opportunità ma della “necessità” di alcune linee di distribuzione [09], è sufficiente considerare il ruolo vitale che quest’ultime svolgono in determinati contesti emergenziali – come accade, ad esempio, con i distributori automatici di prodotti di primo soccorso (garze, cerotti, guanti, idrocortisone, ecc.), di acqua sterilizzata e towel sanitari, talvolta dotati anche di batteria di emergenza. Senza contare, peraltro, che proprio l’anonimato garantito dalle macchine distributrici offre, anche e soprattutto nel nostro mondo occidentale, una forma di tutela della privacy che si rivela talvolta essenziale per l’effettivo utilizzo di dispositivi medici e presidi sanitari socialmente utilissimi ma pubblicamente deprecati quali ad esempio preservativi e siringhe monouso.

[08] Alberto Bassi, Design anonimo ad Osaka (www.albertobassi.it/?p=81), 7 febbraio 2011.

[09] Spesso perennemente attive sulla rete fisica (e non “virtuale”), di praticamente tutti gli ambiti non domestici del territorio urbano e suburbano.

Da questi esempi promana una “lezione” di anonimato che vale particolarmente oggi per almeno due motivi. Da un lato perché «nella maggioranza dei casi» gli oggetti “anonimi” «forniscono indicazioni utili alla comprensione, oltre che del prodotto stesso, del contesto» in cui sono collocati, consentono cioè «di rendere conto della cultura del prodotto e del lavoro, di una specifica industria o società; infine, di collocarli in una sequenza temporale di “storia delle cose”»[10]. In secondo luogo perché questa via al product design sembra declinare al meglio quell’inversione di rotta ormai da tempo avviata, in particolare nei settori a tecnologia avanzata, dal business mondiale sempre meno interessato alle caratteristiche del prodotto in sé quanto piuttosto al servizio offerto dal prodotto stesso [11].

[10] Alberto Bassi, Op. cit., 2011.

[11] Molti gli esempi possibili, ad esempio la telefonia («un telefonino gratuito in cambio di un abbonamento»), ma non solo: strategie aziendali ormai ricorrenti privilegiano l’offerta sul mercato di «una stampante o un pc low-price per vendere a caro prezzo cartucce di ricambio o software», senza dimenticare che esistono oggi «opportunità come il car sharing o il noleggio di una lavatrice» Alberto Bassi, Op. cit., 2011.

Detto pertanto tutto il bene possibile del vending globale [12], occorre però anche notare che nell’ormai endemicamente crescente percentuale di pratiche e attività quotidiane accessibili esclusivamente relazionandosi con una “macchina” v’è un tratto inquietante che non va affatto celato o sottovalutato. Come accennato, leggere le istruzioni relative all’utilizzo di un prodotto, pagare e ritirare il biglietto per l’accesso a un mezzo di trasporto ovvero per una bibita, una bevanda calda o uno snack, è un’esperienza che oggi è diventata sempre più comune. Altrettanto comune è impostare la meta sul navigatore satellitare e mettersi alla guida (anche in questo caso dopo un breve preambolo istruttivo) confidando poi nei consigli di una voce sintetica che seguirà i nostri passi fino alla destinazione finale. Si potrebbe continuare con numerosi altri esempi di pratiche accessibili solo per via digitale o comunque mediata da una strumentazione più o meno complessa, ma un elenco altrettanto esteso si potrebbe fare per le informazioni ottenibili solo per il tramite di una macchina [13].

[12] Settore dal quale, come detto, provengono alla società articoli essenziali che, spesso nel silenzio formale, garantiscono un servizio continuo 24 ore su 24 in zone di conflitto, territori degradati, ma anche solo semplicemente abbandonati o difficilmente raggiungibili dall’approvvigionamento di rete.

[13] Un fenomeno che sta radicalmente mutando il ruolo anche sociale delle macchine risiede nella loro recente entrata su campi ermeneutici, cognitivi e diagnostici assai complessi, e finora impensati, dove la “macchina” riesce sorprendentemente a offrire già ora performance migliori di quelle umane (con tempi di riproduzione del sapere imparagonabili). Se dal 2014 la “Associated Press” ha iniziato ad automatizzare completamente la sua produzione di articoli sui risultati economici delle aziende, più in generale la percentuale di notizie diffuse sul web per il solo tramite di algoritmi è sicuramente cresciuta negli ultimi due/tre anni a livelli ormai preoccupanti.

Nello sconsolante prologo di Al posto tuo, Riccardo Staglianò offre una visione di qualche rilievo per il nostro tema descrivendo come, a suo avviso, la stazione Termini di Roma sia divenuta man mano «irriconoscibile. Dei ventiquattro sportelli di una volta, con le loro immancabili appendici di viaggiatori in attesa, ne sopravvivono sedici. Al posto di quelli mancanti (...) è spuntata una dozzina di biglietterie self-service. Tutto intorno, nell’atrio principale e nei passaggi verso i binari, le macchinette automatiche si sono moltiplicate come cellule impazzite. Quando è successo, esattamente? A forza di passarci davanti succede come con i figli, che non ti accorgi che si sono alzati di cinque centimetri fino a quando qualche estraneo non te lo fa notare (...). Il dato meno scontato riguarda la produttività. Una macchinetta emette in media circa 500 biglietti al giorno e può costare, manutenzione inclusa, “qualche decina di migliaia di euro”. Un bigliettaio umano, in un turno, ne emette circa 200 e costa almeno il doppio ogni anno. Su chi puntereste voi, se l’unica bussola fosse il risparmio?»[14]

[14] Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino 2016.

L’evocazione dello spettro dell’industria 4.0, l’ira rivolta all’avvento del digitale e dell’automazione più invasiva ha qualcosa in comune con le invettive rivolte alle giovani arti del passato. Per le fanciulle dell’800, il male era la letteratura (quella romantica in particolare), per i ragazzi degli anni 50 del secolo scorso erano i fumetti, per quelli nati negli anni 60 la televisione. Igor´ Fëdorovič Stravinskij, compositore simbolo del rinnovamento musicale dei primi anni del secolo scorso, non esitava a vestire i panni del conservatore tuonando contro l’avvento del vinile, qualche decennio fa una simile invettiva coinvolgeva i CD rom e oggi si estende a ogni forma di file riproduttivo. Per un verso questi atteggiamenti sono motivati da un’ingiustificata “paura del nuovo”; per altro verso costituiscono e fanno parte di un certo malessere generale forse inarrestabile, ma non per questo meno reale. Tutti gli esempi citati possono essere infatti ricondotti a una medesima traiettoria ovvero a un medesimo tema: la caduta del tenore locale nell’apprendimento del sapere e del conoscere. Argomento che ha non solo nella pubblicazione della Encyclopédie [15], ma addirittura nella stessa nascita e adozione della scrittura un momento chiave: l’introversione, la de-localizzazione e la de-somatizzazione dell'apprendimento, del conoscere e del sapere.

[15] Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751.

La questione è nota per le classi colte da molti secoli (già per Platone, eccelso "trascrittore" di dialoghi, era folle affidarsi ai «discorsi immobili, com'è il caso di quelli scritti con lettere»), ma è nel XX secolo che tali caratteristiche vengono globalmente condivise dalle masse. E’ infatti a partire dalla prima alfabetizzazione di massa e quindi con la piena scolarizzazione che l'apprendimento e la conoscenza diviene sempre meno consistentemente una pratica sinestetica e di relazione fra individui. Tale passaggio oltre ad avere molti evidenti vantaggi ha una notevole criticità: la rarefazione del portato erotico e dell’impensato nel processo acquisitivo della conoscenza. Eros e impensato non sono più “vie maestre” del sapere, proprio in quanto nel processo di conoscenza fra individui sia il “rumore di fondo” che la “ridondanza” (umorale, prossemico-gestuale, meteo-ambientale, psico-sociale, sinestetica, ecc.) della comunicazione – infinitamente più alte in passato – vengono oggi man mano sparendo non solo in quanto norme o regole acquisitive dominanti, ma persino come possibilità o evenienza perché la relazione conoscitiva fra essere umano ed essere umano (nelle varie combinazioni incrociate per sesso età, ceto sociale, censo, ecc.) è stata man mano soppiantata prima dalla relazione uomo/testo e quindi dalla relazione uomo/macchina.

Nella variegata fenomenologia dell’automazione oggi disponibile c’è una costante “linguistica” che può essere evidenziata. Praticamente tutti questi accessi a informazioni o a oggetti il cui ottenimento è intermediato da un “non-essere” (contenitore o meno di quel che desideriamo acquisire) sono caratterizzati da una certa uniformità di risposta dell’artefatto con il quale si viene prima facie in contatto. In altri termini, sebbene talvolta dotati di una “voce” sintetica, dal punto di vista del linguaggio, si tratta ancora di ordigni relativamente semplici, nel senso che ad essi (contrariamente a quanto accade per le relazioni umane) possono essere sottoposte esclusivamente questioni elementari, ovvero domande alveate secondo sequenze prestabilite, tramite un linguaggio intuibile ma che segue tracciati procedurali base individuati e stabiliti assai prima dell’immissione dell’oggetto sul mercato.

Per fare un esempio concreto, l’ordinazione al ristorante o in albergo, se avviene tramite personale non impone al cliente alcuna particolare cura, sforzo o attenzione linguistica. Richiedere cosa prevede il menù senza leggerlo è perfettamente consentito, così come chiedere un supplemento di informazioni su una determinata portata. Ma quale senso avrebbe in un contesto automatizzato una frase come «Cosa mi consiglia?» che, in una relazione fra umani, potrebbe anche condurre ad una scelta che prima di sedersi al tavolo sarebbe stata impensabile per lo stesso cliente? Il progresso tecnologico è al momento abbastanza lontano dal poter proporre sul mercato macchine in grado di esprimere frasi del tipo «Se posso permettermi di suggerirle...» e la stessa visualizzazione della lista delle opzioni in molti casi rappresenta uno sforzo per l’utente, in quanto comunque, per comunicare con una macchina l’uomo deve “uscire” dal proprio linguaggio (più o meno come accade relazionandosi con uno straniero) e cimentarsi a usarne uno progettato ad hoc per la specifica mansione cui la macchina è stata predisposta a operare.

Tali procedure “linguistiche” (che possono implicare l’utilizzo di un’interfaccia/tastiere reali o simulate con tecnologia touch) sono essenzialmente progettate, instaurate e “messe a sistema” da programmatori (ingegneri hardware e software), information designer, communication designer e “last but not least” da product designer. E poiché gran parte delle attività che disbrighiamo senza una particolare preparazione confrontandoci con un nostro simile, in un futuro non molto lontano, sarà con ogni probabilità filtrata da un “non-essere”, è di tutta evidenza che da questi ingegneri, programmatori e designer, ma soprattutto dal loro talento e capacità di cogliere e replicare sensatamente la “relazione con l’altro” dipende gran parte del benessere psichico e sociale del futuro provato nel rapporto quotidiano fra società umana e sistemi artificiali. Dal loro intuito, esperienza e competenza dipenderà altrettanto ovviamente anche la velocità di “canonizzazione” di una determinata apparecchiatura, la sua più o meno rapida acquisizione nel novero dei comportamenti e degli oggetti che una comunità reputa “normali” o come ebbero a definire Naoto Fukasawa e Jasper Morrison nella loro fortunata mostra itinerante, “super normal” [16].

[16] La mostra (nella edizione italiana negli spazi della Triennale di Milano dal 18 al 23 aprile 2007) comprendeva circa 200 oggetti comuni, di uso quotidiano, la cui genesi di design è del tutto anonima o rientra nella categoria di “anonimo d’autore”.

In tema di distribuzione automatica alimentare, ma non solo, la questione del progetto è dunque sempre almeno bifronte. Se da un lato la macchina ha il dovere di evidenziare e rendere leggibili le proprie funzioni, d’altro canto l’indagine a monte, ovvero la disamina dello status quo della pratica di cui la macchina intende proporre una nuova chiave di lettura operativa [17] deve essere sagace, attenta e perspicace. Il buon progetto, il progetto giusto, quello tipologicamente evolutivo, o addirittura innovativo, nasce spesso (quando non esclusivamente) da un’acuta lettura e da una corretta interpretazione del reale, delle concrete esigenze esperite sul campo dagli operatori reali. E ciò anche in forza del fatto che proprio a fronte di progetti “errati” o perlomeno non sufficientemente efficaci, l’utenza non solo manifesta il crearsi di situazioni problematiche o mal risolte, ma spesso genera comportamenti che sono “reazioni creative”, ovvero possono essere intese come proposte progettuali in nuce di cui un buon designer sa sempre prendere atto assumendole e riconducendole “a sistema”.

[17] Sorta di “riduzione culturale” di quanto colto dall’azione consapevole delle “forme di vita” appartenenti al contesto lavorativo che precede l’intervento progettuale.

L’attenzione posta alla dinamica reale delle relazioni uomo/artefatto scaturenti in ambiti domestici e di lavoro, non è solo condivisa da grandi imprese ma è una peculiare abilità molto valutata anche da designer di frontiera che nella loro vicenda professionale hanno rasentato, e talvolta addirittura praticato l’autoproduzione. Se, ad esempio, per i grandi gruppi statunitensi o europei [18], la “cattura” del dato situazionista/sociologico in cui gli artefatti si trovano coinvolti nella vita reale, pretende «una grossa ricerca preventiva» e ha come fine quello di instradare il designer «a proporre soluzioni e idee non solamente dovute al proprio filtro soggettivo e personale ma intese e avvertite tramite analisi previsionali “oggettive” e “scientifiche” di quel che» sarà «l’uso “pubblico”»[19] di un determinato oggetto, per Paolo Ulian, tra le regole «fondamentali» di un buon designer, «la prima è guardarsi intorno, ovvero assecondare attraverso la progettazione gli atteggiamenti quotidiani per migliorare il vivere quotidiano stesso» mentre la «seconda regola è utilizzare ciò che esiste già. Si tratta di adottare un approccio materico non in funzione dell’estetica e del decoro puro e semplice, ma in funzione del decoro strutturale»[20].

[18] Come, ad esempio, il Gruppo Zanussi è stato per almeno un ventennio.

[19] Federico Carandini, L’emozione tecnologica. Il design di Jeff Miller, in Umberto Rovelli (a cura di), Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net, Franco Angeli, Milano 2011.

[20] Paolo Ulian, Incontro con gli studenti del primo anno dello IED di Milano, moderatore Aldo Colonetti, venerdì 10 febbraio 2012.

Questa conformità di vedute fra design di massa e design d’autore non dovrebbe stupire più di tanto. Un approccio evolutivo delle tipologie in campo, tendente cioè a proporre nuovi oggetti con i quali svolgere funzioni inedite, ha carattezzato molta produzione del giovane design, anche italiano, soprattutto a partire dalla prima decade del millennio. Ma una medesima “visione” progettuale non è certo aliena all’imprenditoria di alcuni settori d’avanguardia per i quali il tabù della modernità – la “decorazione” – non è quasi mai assurta a un ruolo chiave e “strategico”, in grado cioè di sopperire alla reale mancanza di progetto – come è invece accaduto per varie frange dell’arredo, dell’oggettistica e del furniture specie nell’ultimo ventennio del XX secolo.

E a proposito del ruolo del “decoro” nel progetto, Ulian pone giustamente l’accento sulla sua qualificazione “strutturale” in cui risiede il segreto del valore e del tenore sociale di una scelta progettuale anche estetica. Solo un approccio autenticamente “sistemico” consente all’incursione innovativa di restituire un nuovo insieme dotato di senso. Pur se originata da un inedito approccio, la riprogettazione globale e complessiva di un’area di lavoro deve manifestare una propria coerenza ritmica. Le pratiche consentite dai nuovi strumenti messi in gioco dal progetto possono anche manomettere l’ordine e le tempistiche di lavorazione, ricongegnando e assemblando diversamente – come “tessere” – le varie fasi di lavoro, ma tale “processo” sequenziale deve manifestarsi con un linguaggio coeso e plausibile: alla fine deve “suonare” bene. La ricomposizione susseguente alla divisione delle pregresse sequenze operative deve cioè “apparire” coesa e plausibile, palesare i connotati di un effettivo “risarcimento” dell’ordine infranto, manifestando in modo persuasivo quanto e come il nuovo “ritmo” – la nuova punteggiatura operativa immaginata – sia efficace e dotata di un senso intellegibile, compatibile con la situazione data oltre che scandito in modo organico e comprensibile ai più. In questo senso l’offerta di «qualità formali» elargita ai nuovi oggetti e moduli impegnati nelle rinnovate sequenze operative non si limita affatto alle sole proprietà «formali» ma coinvolge anche, per usare le parole di Tomàs Maldonado, «le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore che dell’utente»[21].

[21] Tomás Maldonado, La formazione del Disegnatore Industriale, relazione al congresso dell’ICSDI - International Council of Societies of Industrial Design, Venezia 1961.

Com’è accaduto in passato [22], quasi ogni progetto che intenda razionalizzare e rendere efficiente un determinato ambito di lavoro non è alieno al ricorso dei medesimi principi e metodi tayloristi applicati nell’organizzazione della manodopera operaia. Nell’opera di Frederick Winslow Taylor (1856-1915), il concetto di standardizzazione si estende non solo a utensili e attrezzature ma soprattutto alla definizione del “lavoro” da eseguire e dei metodi e tempi che devono essere utilizzati. Altri concetti cardine su cui poggia l’innovazione operativa introdotta dalla tecnica nelle sequenze lavorative di tipo individuale/artigianale sono poi la semplificazione, e la specializzazione finale del lavoro che, in un senso anche forte, tendono ad assimilare l’elemento umano agli utensili e le attrezzature, mirando quindi a rendere intercambiabili e fungibili uomini e macchine.

[22] Ad esempio, per il processo di razionalizzazione degli spazi domestici – in particolare della cucina – a partire, almeno in Italia, dagli anni 20-30.

Questo processo di standardizzazione, semplificazione e specializzazione non è però integralmente imputabile alle necessità emerse dalla sola produzione seriale di massa. Con Taylor avviene una codificazione che avrà modo, manualisticamente, d’essere applicata su vasta scala, ma si tratta solo dell’ultimo anello di un atteggiamento mentale e di una prassi che ha radici documentabili persino nella bottega artistica toscana. In una scheda elaborata da Gloria Tranquilli a proposito della Madonna col Bambino e san Giovannino, opera della bottega di Andrea Del Sarto risalente al 1515 circa, si può infatti leggere che «fra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, le botteghe artistiche fiorentine erano vere e proprie aziende che producevano e commercializzavano i loro “prodotti” con regolari contratti (...). Il committente benestante poteva inserire nel contratto la clausola che l’artista eseguisse il dipinto di “sua mano”, se non voleva un’opera di bottega, ma più spesso il maestro doveva limitarsi a eseguire il disegno e a dipingere “di sua mano” alcuni dettagli come le teste o le figure principali. Gli artisti utilizzarono tecniche e materiali grafici diversi per riprodurre più velocemente il disegno preparatorio, tappa fondamentale del processo ideativo dei pittori del Rinascimento. Il metodo più usato dal Trecento in poi per i cicli di affreschi era lo spolvero che prevedeva il trasferimento del disegno preparatorio attraverso il cartone, un modello “ben finito” a grandezza naturale, forato lungo i contorni (...). Nel corso del XVI secolo, agli artisti più famosi era richiesta a volte solo la produzione dei cartoni, mentre la fase esecutiva dell’opera era lasciata ad assistenti e allievi»[23].

[23] Gloria Tranquilli, scheda su Andrea Del Sarto (bottega di), Madonna col Bambino e san Giovannino, 1515 circa, Galleria Borghese, Roma.

Nella stessa nozione di “progetto” è implicita la «coscienza della separazione dei ruoli dell’invenzione e della produzione» ovvero l’«individuazione di due gruppi distinti di operatori riferiti uno al progetto e l’altro alla produzione»[24]. Ben presto «le corporazioni, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, presero a trasformarsi in un sistema oligarchico guidato da “maestri artigiani” che non facevano più direttamente la gran parte del lavoro ma lo affidavano a uomini a giornata, che venivano deliberatamente esclusi dalla possibilità di acquisire una padronanza del mestiere»[25]. Fin da tale epoca dunque il “maestro artigiano” è non solo “colui che fa” ma “colui che progetta” e il progetto «diviene» anche, quasi necessariamente, «elemento di definizione e di controllo del fare, fissando un’integrazione continua fra progetto e produzione»[26].

[24] Giuseppe Chigiotti, Design. Una storia, Franco Angeli, Milano 2010.

[25] Giuseppe Chigiotti, Op. cit.

[26] Giuseppe Chigiotti, Op. cit.

A proposito del concetto di progetto e della relazione che s’instaura nella bottega fra progetto e produzione è interessante notare «un passaggio che appare molto chiaro, per esempio, dal confronto del modo di operare di Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti». Se il primo «definisce la soluzione del suo progetto attraverso la presenza continua sul cantiere, seguendo la concezione dell’inscindibilità del rapporto tra invenzione e realizzazione», al contrario per Leon Battista Alberti «ha un ruolo determinante l’atto dell’invenzione che, sotto forma di disegno o teoria si presta a essere realizzata e duplicata da chiunque sappia leggerla»[27].

[27] Giuseppe Chigiotti, Op. cit.

Visto in un’ottica plurisecolare, il passaggio dalla concezione brunelleschiana a quella albertiana bene evidenzia, non solo come il progetto rappresenti una coerente premessa all’instaurazione di ruoli distinti nell’attività artigiana, ma anche come da tale scarto fra “colui che fa” e “colui che progetta” si sia potuto avviare quel processo di standardizzazione, semplificazione e specializzazione delle mansioni che, già vigente nella bottega di scuola, ha uno scopo assolutamente omogeneo a quello taylorista: l’aumento e il controllo qualitativo della produzione tramite l’analisi dell’apparentemente indissolubile processo poietico individuale in più fasi componibili in sequenze di procedure (gesti) più semplici, ovvero che il maestro può semplicemente sovrintendere (in primis tramite il “disegno”) e non già realizzare in prima persona. Nella bottega tre-quattocentesca, come nella fabbrica del XX secolo, l’efficientamento di una produzione si attua secondo un medesimo orientamento: la compartimentazione di pratiche complesse coese [28] in una serie separata e cadenzata di operazioni più semplici, raramente sincrone.

[28] Che, nell’unità di tempo definita, possono anche prevedere, come accade nella partitura polifonica, azioni combinate e sovrapposte.

A fronte di questi processi di efficientamento – di cui le discipline del progetto e del “disegno” non solo sono conniventi ma addirittura scaturigini – il baudrillardiano “teatro di gesti” connesso alle mansioni svolte dal corpo umano viene come man mano “interiorizzato” dall’arredo e dagli oggetti deputati a razionalizzare le pratiche quotidiane (sia minimizzandone gli ingombri e gli “sprechi” mimici, sia forgiando mobili e utensili che fungono praticamente da “apparati di contenzione” di una serie articolata di azioni un tempo eseguite dall’essere umano talvolta in spazi anche molto vasti). Com’è ovvio, in tali processi di efficientamento, si è manifestato un genuino intento assistenziale, teso a ridurre i “movimenti falsi” e alleviare le fatiche quotidiane di chi operava in determinati settori, ma, d’altro canto, la “contenzione” dei tempi di lavoro quasi mai si era tradotta finora, per i soggetti interessati, in un’equivalente riduzione del lavoro [29]. Al contrario, fino a pochi anni fa, l’ottimizzazione del tempo di lavoro ha favorito l’efficacia della forza lavoro disponibile in termini globali, ovvero nell’ottica complessiva del datore di lavoro: col “liberarsi” di tempi ed energie, gli uomini e le donne potevano (o meglio erano tenuti a) svolgere ulteriori mansioni. Esemplare in tal senso appare la sintesi conclusiva della brochure Zanussi di Domino che recita: «niente più quindi: clienti in lista d'attesa; bancone sporco e da riordinare; qualità del caffè variabile a seconda dell'esperienza dell'operatore. In quanto, con Domino Espresso è possibile: a) soddisfare, mentre la macchina prepara da sola il caffè, tutte le altre ordinazioni; b) permettere all'operatore, non più impegnato manualmente, di disporre del tempo utile per il riordino e la pulizia; c) ottenere, premendo semplicemente un pulsante, caffè espresso di alta qualità indipendentemente dalla capacità dell'operatore»[30].

[29] Il primo e consistente esito storico della razionalizzazione di spazi e riduzione del lavoro della cucina domestica non libererà la donna dal lavoro domestico ma ne velocizzerà il tempo consentendole di “emanciparsi”, a proprie spese, come donna lavoratrice.

[30] Zanussi Grandi Impianti. Divisione Sistemi di Distribuzione, Domino Espresso. L’evoluzione della tecnologia - brochure aziendale, Valbrembo (BG) 1990 circa.

Uscita dalle aree di lavoro in cui era espressamente circoscritta solo qualche decennio fa, la stessa logica di “contenzione” gestuale ha guidato gli enormi passi svolti dalla tecnologia, più o meno a partire dagli anni 80. L’incremento vertiginoso delle attività eseguibili in absentia di un qualsiasi operatore umano con cui relazionarsi, semplicemente collegandosi on line, ha fatto sì che gran parte delle mansioni in precedenza poste in essere a partire da una relazione fra esseri umani siano oggi mediate da strumentazioni elettroniche. Non solo. Lo sviluppo tecnologico ha reso potenzialmente disponibile un parco vastissimo di “azioni digitali” dotate di efficacia, ma molte di tali azioni solo pochi anni fa erano ricomprese nel novero del lavoro altrui. A tutti noi oggi è quindi consentito di svolgere autonomamente, da qualunque luogo e in qualunque momento, determinate mansioni per le quali, in un passato non certo lontano, era necessario relazionarsi (in determinati luoghi e orari) con un essere umano (il cui lavoro consisteva, in parte o del tutto, proprio nello svolgere quelle mansioni alle quali noi ora abbiamo tecnologicamente “libero” accesso). Questa libertà operativa, assicurata in gran parte dalla pervasività delle connessioni on line, oltre a ridurre potenzialmente la disponibilità materiale di lavoro reale, è anche un carico di lavoro che oggi ognuno di noi è tenuto ad assumersi in proprio.

L’elisione pressoché totale dei vincoli posti al e dal “qui ed ora” all’interno di una parte consistente di attività umane non è certo priva di conseguenze per la psiche dell’uomo contemporaneo. A tal proposito Umberto Galimberti sostiene che «nell’età della tecnica l’uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell’altro-da-sé che è la tecnica»[31]. Con ciò paventando un paradossale disappunto che l’uomo contemporaneo sta man mano evidenziando anche nei confronti della parallela dimensione reale della propria esistenza. Un territorio operativo che, con i suoi attriti, disomogeneità e costrizioni oggettive imposte al libero agire dell'individuo non sembra più garantire la medesima efficacia offerta dalla dimensione in cui l’avatar digitale di ognuno di noi opera on line.

[31] Umberto Galimberti, Psiche e tecnica. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.

Dunque è nel quadro di un più generale livellamento fra potenzialità operative garantite all’uomo “analogico” e “digitale” che va anche ricompresa la consistente attenzione dimostrata oggi da più che evidenti interessi economici per lo sviluppo e l’estensione dell’automazione dei servizi e del settore vending [32] in particolare, che costituisce ormai una quota parte sempre più rilevante (unitamente ai più recenti servizi di condivisione temporanea di mezzi di trasporto individuali) di quell’area – un tempo quasi esclusivamente pubblica – individuata dall’ampio sistema di spazi e oggetti “comuni” (ovvero “condivisi”) che, secondo la nota formula koenighiana, «chi usa non compra». Spesso cedute in “comodato d’uso” le linee di distribuzione alimentare automatiche sono in grado di “liberare” il lavoratore nomade contemporaneo da alcune spiacevoli necessità quotidiane. Scomparsa la gavetta o il panino “fatto in casa”, da almeno quattro decenni, anche l’area di lavoro della zona industriale meno accessibile è in grado di offrire un ristoro compatibile con quello della metropoli. E il punto essenziale che supporta questa cresente logica distributiva e insediativa insieme è proprio l’omogeneità garantita al territorio reale che progressivamente indifferenziandosi, anche grazie all’offerta di servizi automatici, viene così assimilandosi man mano alle altrettanto omogenee mappe digitali del navigatore web.

[32] Oltre che dei concorrenziali servizi di food delivery.

Come accennato, anche se i modelli antesignani del settore sono presenti già agli inizi degli anni 60, il pieno sviluppo commerciale del settore vending è però storicamente legato alle lotte sindacali dello stesso decennio, grazie alle quali in Italia viene riconosciuto del diritto alla “pausa caffé” sia in ufficio che in azienda. I distributori di bevande calde fanno così parte integrante degli arredi degli ambienti di lavoro (uffici, aree mensa, ecc.) più o meno a partire dagli anni 70. All’epoca, il compito “mimico” del distributore di caffé, associato o meno a un distributore di snack è quindi quello di replicare, nella modalità self-service – cioè senza che alcun operatore umano effettui alcun servizio – i requisiti base che caratterizzano la tipica prima colazione al bar, che consiste nella possibilità di bere una bevanda calda e fare uno spuntino dolce o salato in velocità e senza sedersi. Il talento assimilativo è all'origine del successo dei prodotti di settore, e – frutto di previe analisi e ri-composizioni progettuali – la capacità imitativa dei moduli dispenser di restituire una eco persuasiva degli ambienti reali di cui sono gli epifanici succedanei è fin dagli inizi la segreta e specifica reason why del loro successo e proliferazione incontrastata.

Tale abilità è ampiamente dimostrata da uno dei primi progetti di Luciano Valboni: il distributore automatico di caffè D.A. Dispenser, prodotto evergreen immesso sul mercato da Zanussi nel 1974 che rimane in catalogo addirittura per 25 anni. Il designer fiorentino è in forza nel settore distribuzione automatica della Zanussi Grandi Impianti fin dal 1969, dove opererà, praticamente ininterrottamente per 36 anni, come responsabile interno dell’azienda: fino a quando cioè, ormai “Industrial Design Director” aziendale, nel 2005 esce dal gruppo Electrolux Professional (subentrato nel frattempo nel gruppo Zanussi dal 1984). L'esperienza e le capacità di Valboni lo portano fin dal 1973-74 ad assumere la carica di responsabile del design di tutto il settore collettività/casa di Zanussi, area progettuale che comprende: il ramo vending, le cucine professionali (cucine, frigoriferi, lavastoviglie, lavabiancheria, ecc.) e le linee di distribuzione self-service. E' dunque un esperto professionista quello che, nella seconda metà degli anni 80, affronta il tema complesso sotteso al progetto di Domino.

In particolare il compito "mimico" attribuito alla gamma appare arduo da impostare e risolvere coerentemente. Ben diverse e articolate le funzioni, le tempistiche e la prossemica connesse alla prima colazione alberghiera che, nella sua declinazione “internazionale”, prevede – per calorie di alimenti disponibili – una quantità di consumazione al tavolo di bevande e cibi sia caldi che freddi quasi corrispondente a un normale pasto “mediterraneo” (anzi spesso rappresenta l’occasione di consumo alimentare diurno più cospicua). In genere, nella prima colazione, parte delle attività vengono svolte da personale addetto ai tavoli (richiesta e memorizzazione del numero di camera, ordinazione e consegna al tavolo di bevande calde, ecc.) mentre alcune operazioni sono direttamente svolte dall’utenza stessa cui viene solitamente delegato l’atto del materiale approvvigionamento di alcune bevande fredde e del cibo [33] preventivamente predisposto sotto forma di buffet (di cui è solitamente responsabile il receptionist).

[33] Riducendo da un lato il personale necessario, ma rendendo al contempo complessa la previsione di tempistiche e “dosi” necessarie quotidianamente.

Dall’intreccio di tali relazioni scaturisce sovente un coacervo di dinamiche (con attori e ruoli diversi) punteggiate da frasi e interrelazioni standard (fra personale e ospiti) abbastanza complesso e non immediatamente organizzabile per flussi di lavoro o per cicli operativi sequenziali distinti e autonomi. Si tratta di un coacervo, nella realtà pressoché indistricabile, che chiunque abbia mai progettato componentistica per l’ambito alberghiero e della ristorazione (Hotel - Restaurant - Café / Catering, da cui l’acronimo HoReCa col quale viene solitamente contraddistinto il settore dagli addetti al lavoro) ha dovuto prima immaginare “per parti” discrete e quindi ricondurre a sistema, cercando peraltro di “contenere” gli spazi deputati alle funzioni e riducendo, al contempo, le energie lavorative necessarie a svolgerle.

Anche se oggi è ormai divenuto un oggetto consueto per i frequentatori di alberghi internazionali, come elemento del “paesaggio” della prima colazione, il dispenser multidrink per bevande calde e fredde va considerato un’acquisizione relativamente recente del territorio nazionale connessa in particolare alla crescita di rilevanza nell’offerta di ospitalità nazionale della piccola colazione a buffet di tipo europeo. Come nota Stefano Bonini sulle pagine della rivista “L'Albergo”, «va detto che l’Italia sulla piccola colazione non ha una propria radicata tradizione. L’abitudine nazionale è quella dei classici cappuccino e brioche consumati velocemente in piedi al banco del bar. Tra chi viaggia e fa vacanze però quella del breakfast seduti è diventata abitudine irrinunciabile ad ogni latitudine. Per almeno 20 milioni di italiani il breakfast in hotel è ormai un rito di passaggio, un piacevole avvicinamento al gusto europeo, quasi come la pizza e l’hamburger. Osservando i circa 50 milioni di turisti internazionali che ogni anno visitano l’Italia è facile capire che la formula cappuccino più brioche è poco più di un momento folkloristico, un vezzo per avvicinarsi ai nativi»[34].

[34] Stefano Bonini, Il breakfast, un servizio fondamentale per la customer satisfaction di un hotel, in "L'Albergo" 49, marzo/maggio 2016.

Com’è intuibile il paradosso dell'automazione diviene dirompente proprio in ambito HoReCa. Nell'ottica di una gestione più razionale delle “risorse” umane disponibili (dal lato, cioè, dell'offerta) il tratto omologante che incardina la storia del vending alla citata triade uniformante taylorista (standardizzazione, semplificazione e specializzazione) appare perfettamente adeguato e coerente. Sul fronte della domanda, invece, il rito della prima colazione assume reputazione agli occhi dell’ospite proprio in quanto espressione di alcune peculiari caratteristiche radicate nell'apporto più autenticamente umano e territoriale che si traduce in prodotti tipici, colori, sapori, odori della cucina artigianale, materie fresche di giornata, ecc. In altri termini il valore della prima colazione risulta perlopiù funzione proprio di quell’eccellenza analogica che promana dalla forza pulsante, ambigua e oscura della cultura materiale e dal contributo umano che il vending tende di principio ad annullare. Dipende cioè dal tratto eminentemente “specifico” che connota un evento che diviene memorabile in quanto accade “qui e ora” apparentemente “su misura” per noi. Aneliti che, a prima vista, mal si conciliano con la strategia automatizzante implicita nello stesso concetto di dispenser.

Ma come ricordato a proposto di prassi e atteggiamenti ritenuti oggi “normali” anche i paradossi si palesano o meno in modo dirompente in funzione delle “condizioni al contorno”. All’epoca della sua introduzione sul mercato, infatti, Domino rappresenta un esito progettuale all’avanguardia per le esigenze del settore [35]. E non è affatto da escludere che proprio il tratto albertiano/taylorista sia stato all’origine del successo ottenuto dal prodotto. Nel suo complesso, la gamma consente esplicitamente agli albergatori di “cadenzare” per ambiti ovvero per “unità minime di lavoro” il proprio ingresso in una offerta che nel 1988 anticipa oltre che aderire alle richieste dell'utenza. Non appena immessa sul mercato, infatti, la proposta colpisce positivamente il mondo lavorativo al quale si rivolge, soprattutto per l’efficace e solida compartimentazione delle fasi di lavoro (assistito o meno da personale). Non è un caso che le brochure aziendali sottolineino in primo luogo la natura meta-progettuale e sistemica della gamma. A partire dallo slogan individuato per promuovere l’intero sistema Domino, secondo il quale, l’azienda ha «trovato una nuova logica» per «mettere in riga» le “tessere” di cui è costituita la gamma stessa [36].

[35] Come si può rilevare dalle coeve brochure aziendali all’epoca del progetto della gamma Domino, Zanussi «ritiene che esista una domanda di apparecchiature sofisticate con design di alta qualità e con caratteristiche che consentano una maggior razionalizzazione del servizio, assicurando sempre un’elevata qualità delle bevande erogate indipendentemente dalla capacità dell’operatore». Zanussi Grandi Impianti. Divisione Sistemi di Distribuzione, Domino by Zanussi. Zanussi ha trovato una nuova logica per metterle in riga - brochure aziendale, Valbrembo (BG) 1988 circa.

[36] Zanussi Grandi Impianti. Divisione Sistemi di Distribuzione, Domino by Zanussi. Zanussi ha trovato una nuova logica per metterle in riga - brochure aziendale, Valbrembo (BG) 1988 circa.

Come si può evincere, ancora dalle coeve brochure aziendali, i moduli accessori rispetto ai principali Espresso (modulo programmabile da cui si ottiene il caffè premendo un pulsante) e Fresh Brew (modulo che prepara e distribuisce caffè filtrato da caffè macinato caricato automaticamente sul filtro) possono essere «tutti collegati in batteria» ed «è possibile accessoriare le diverse apparecchiature con il “sistema gestione prelievi”» che «consente al cameriere, previo riconoscimento mediante un elemento di identificazione codificato di avere accesso al sistema prelevando quantitativi di bevande dei quali il sistema tiene memoria. A fine turno, mediante display o stampante, è possibile avere un resoconto dei prelievi effettuati da ogni singolo cameriere», mentre «la stampante può emettere scontrini per ogni serie di prelievi»[37].

[37] Zanussi Grandi Impianti. Divisione Sistemi di Distribuzione, Domino by Zanussi. Zanussi ha trovato una nuova logica per metterle in riga - brochure aziendale, Valbrembo (BG) 1988 circa.

Il progetto consente quindi qualcosa in più della uniformazione composta e organizzata per parti di una serie complessa di azioni di lavoro. La gamma Domino offre un “metodo di controllo” pressoché integrale (per così dire “a consuntivo”) dell’operato del personale anche in assenza di un’ulteriore presenza umana: possibilità che, con l’inserimento del già previsto modulo di pagamento, allarga le potenzialità d’utilizzo della serie di moduli aggregabili (ideati espressamente per il mondo HoReCa) anche self-service, consentendo cioè «pagamenti in moneta o sistema equivalente» in modo da abilitare «le diverse macchine all’erogazione automatica»[38].

[38] Zanussi Grandi Impianti. Divisione Sistemi di Distribuzione, Domino by Zanussi. Zanussi ha trovato una nuova logica per metterle in riga - brochure aziendale, Valbrembo (BG) 1988 circa.

Non dunque un mero prodotto, bensì una serie di opportunità concrete di utilizzo adattabili e coerenti con diverse esigenze di sviluppo in linea dell’offerta e di evoluzione della domanda all’interno dei diversi settori coinvolti. Il sistema progettato da Valboni si dimostra pertanto in grado di: a) soddisfare le esigenze del mercato vending sia Self-Service che HoReCa; b) adattarsi a vari status quo della struttura ricettiva sia all’avvio che nel corso del tempo per la studiata integrabilità dei diversi moduli; c) consentire erogazioni di qualità del tutto indipendenti dalle capacità dell’operatore; d) garantire automazione e controllo delle attività anche tramite una gestione centralizzata dei consumi e di quanto – e da chi – prelevato, pressoché totale.

Il tutto espresso e delineato con sobrietà (ovvero in linea con la “lezione” anonima) che rende queste apparecchiature fruibili in ogni tipo di ambiente ma soprattutto in grado di sintetizzare con proprietà di linguaggio sia l’alto livello tecnologico sia la pratica (ed economica) modularità degli elementi della gamma. Realizzati con telaio portante in alluminio anodizzato, fianchi in poliuretano semi-espanso, frontale, schienale e ripiano scaldatazze in acciaio inossidabile, i diversi moduli della linea Domino veicolano con efficacia un approccio all’epoca niente affatto consolidato. Approccio che – grazie alla “visionaria” capacità aziendale e autorale di anticipare l’instaurarsi di nuovi comportamenti – è divenuto col tempo una consuetudine di cui anche oggi siamo in grado di riconoscere agevolmente la “grammatica” ordinativa, per non dire l’ordinarietà, tratto condiviso da tutti gli oggetti “super normali”.

Non è forse inutile sottolineare come, adottati «ogni giorno al punto di diventare invisibili»[39] i comportamenti e gli oggetti che nell’attualità appaiono “super normali” ci provengano come tali essenzialmente secondo due distinte, modalità: a) diacronica, ovvero come innovazioni scaturite tempo fa da “idee” pionieristiche e originali che però, o in quanto fortemente “attese”, o perché risalenti a precedenti generazioni, sono state più o meno immediatamente “riconosciute” dalla massa riuscendo ad attecchire al punto da divenire “canoniche”; b) sincronica, ovvero come esito coevo di una conformazione morfologica “anonima” per cui «l’oggetto non lascia percepire l’intenzione, da parte del suo autore, di “fare design” o di “esprimersi”»[40].

[39] Naoto Fukasawa, Jasper Morrison, Naoto + Jasper = Super Normal, in “Domus”, 894, luglio 2006.

[40] Naoto Fukasawa, Jasper Morrison, Naoto + Jasper = Super Normal, in “Domus”, 894, luglio 2006.

Spesso tali modalità si trovano entrambe combinate, rafforzandosi l’un l’altra, nei prodotti long seller. Forse meno entusiasmante di altre opzioni plastico-formali, proprio in forza del suo peculiare connotato low profile, lo “stile” anonimo è in grado di sopravvivere a lungo nelle pieghe del canonico e non di rado, offrendo fruibilità alle innovazioni, ne esalta il tenore tendenzialmente universalistico, garantendo un “laico” aplomb razionale a prodotti manifestamente high tech nel senso più nobile del termine. Non a caso il «sistema per preparazione e distribuzione di bevande per l’area turistico alberghiera»[41] ideato da Luciano Valboni e realizzato dal declinante colosso Zanussi [42] rientra nel novero dei prodotti che oltre a costituire i primi sistemi di riferimento progettuale tipologico per il settore, riescono peraltro a declinare la novità implicita del loro tratto pionieristico nei termini asciutti e lineari che esaltano la logica d’insieme piuttosto che il singolo prodotto. Ed è infatti la gamma nel suo complesso a vincere, nel 1989, il prestigioso Compasso d’Oro - ADI con la seguente motivazione: «Per i pregi di componibilità, comunicazione e coordinamento dell’immagine negli ambiti d’impiego più diversi»[43].

[41] È questa la tipologia di prodotto attribuita alla gamma Domino nella premiazione del Compasso d’Oro. Cfr. ADI, Comune di Milano, Catalogo XV Premio Compasso d'Oro, Silvia Editrice, Milano 1989.

[42] Il gruppo era già stato acquisito pochi anni prima dalla svedese Electrolux, nel 1984.

[43] ADI, Comune di Milano, Catalogo XV Premio Compasso d'Oro, Silvia Editrice, Milano 1989.

Soprattutto nelle prime brochure di Domino, con i moduli della gamma disposti fianco a fianco come in parata, viene trasmessa con immediatezza la valenza “enciclopedica” del progetto di Valboni. Ogni funzione vi appare risolta come a sé stante (ogni “porzione” ha un proprio "titolo” e una mini-scheda tecnica di dettaglio) ma al contempo si propone in quanto altrettanto debitamente assemblata alle altre. L’insieme appare assolutamente più significativo (è l’orizzonte di senso in cui ogni acquisto di porzione s’inserisce) ma ogni modulo (e questo, come detto, risulta vincente dal punto di vista del “consumo” della gamma) è altrettanto vividamente porzione finita, “tessera” dotata di senso anche “al di qua” del quadro complessivo. In tale cornice speculativa, lo stile che innerva ogni modulo diviene allora, seguendo Proust, il «segno della trasformazione che il pensiero (...) fa subire alla realtà». Anche l’algida superficie del metallo che riveste la nuova realtà progettata acquista una valenza “autorale” poiché nella pelle argentea dell’intera gamma di Domino «tutte le parti della realtà» appaiono davvero come «convertite in una medesima sostanza, dalle vaste superfici, dal monotono scintillio. Tutte le cose vi si raffigurano, ma di riflesso, senza alterare la sostanza omogenea. Tutto ciò che era diverso è stato convertito e assorbito»[44]. Ed è anche per tale via che, recando l’impronta dell’autore sulla realtà, il distaccato garbo profuso sugli elementi appare ancora più credibile nel raggiungere il suo primario obiettivo: “eufemizzare” il disumano spessore dell’artificio, sprezzarne l’animus provocante, scoprire un varco, non meramente naturalistico, in grado di offrirgli una più spedita assimilazione e prossimità all’umano.

[44] Marcel Proust, Contro Saint-Beuve, Einaudi, Torino 1991.

Nonostante quanto premesso, il Compasso d’Oro attribuito alla gamma Domino dall’autorevole giuria (costituita da Tomás Maldonado, Pierluigi Molinari, Cesare Stevan, Hans Wichmann e Fredrik Wildhagen) della XV edizione del più celebre premio italiano di design è rimasto un compasso minore, per certi versi negletto e troppo presto dimenticato: una damnatio memoriae alla quale con la presente acquisizione intendiamo offrire un primo, parzialissimo, contributo oppositivo. A nostro avviso, le ragioni “errate” dell'oblio inflitto al progetto Domino possono essere ricondotte ad almeno tre ordini o veicoli di senso: a) la tipologia di servizio ad alto tasso industriale viene ritenuta, a torto, minore rispetto a quelle dell’arredo – più ricettive e conniventi con le vestigia decorative di matrice artistico-artigianale; b) l’impronta “anonima” – da res nullius – che profila la linea con un “disegno” essenziale appare troppo compromessa con la logica aggregativa del sistema rispetto al vigente trend che si nutre pressoché esclusivamente di esaltazione della singolarità; c) la recente evoluzione valoriale avvenuta nel settore è in contrasto, almeno in parte, con i principi su cui è concepita la gamma. A queste tre “errate” ragioni di oblio vorremmo qui, brevemente, obiettare almeno altrettanti argomenti di contrasto.

Il primo punto costituisce un endemico “complesso” nazionale nei confronti dell’industrial design che limita fortemente buona parte della stessa produzione critica nei confronti di una disciplina che, in Italia, appare pressoché costantemente scissa dal suo più chiaro ed evidente connotato: l’essere cioè «in grado d’incidere non tanto sui destini di ristrette élite quanto piuttosto, con sotterranea evidenza, erga omnes»[45].

[45] Alberto Bassi, Design local, act global, in AA.VV., MuDeTo Collection 2015, Museo del Design Toscano, Firenze 2017.

Il secondo punto è il tema sul quale ci siamo ampiamente soffermati finora. Ma per serrare le fila in proposito forse non è inutile citare proprio Maldonado che probabilmente ha avuto anche un ruolo trainante nelle scelte di un “compasso” che, oggi, appaiono tanto lungimiranti quanto controcorrente. L’edizione del 1989 può infatti essere letta come uno degli ultimi attestati di forza e oculata lettura ermeneutica della realtà produttiva da parte di una “scuola” del progetto già in procinto d’essere “sconfitta” sul campo. Una scuola di cui sia Pierluigi Spadolini che Giovanni Klaus Koenig (scomparso nello stesso anno della premiazione di Domino) erano stati fautori, contribuendo a formare più d’una generazione di allievi capaci come lo stesso Luciano Valboni. Entrambi, come del resto lo stesso Maldonado, non hanno mai perso di vista il senso eminentemente sociale (di “servizio”) di una professione per la quale sia la creazione di novità sia la riuscita espressione formale non possono non lesinare sforzi e attenzioni per “compromettersi” con i dettati più stringenti e ferrei promananti dagli ambiti industriali e produttivi (a loro volta consistentemente sensibili ai costi e alle quantità in gioco)[46].

[46] Una scuola il cui ruolo e portata potrebbe, oggi, essere grossomodo paragonata a quella dei fautori dell’economia reale mentre le logiche di consumo (o soprattutto quelle della comunicazione) sono appannaggio pressoché esclusivo dei guru dell’economia finanziaria e fanno prevedere un futuro caratterizzato dal proditorio quanto inutile insufflaggio di “bolle” personalistico-formali nel sempre più inflazionato “olimpo” di un design assai più visto che usato.

Con estrema coerenza (e non a caso, proprio per ricordare l’esperienza progettuale e formativa di Pierluigi Spadolini), a oltre vent’anni dal Compasso assegnato a Valboni e Zanussi, Maldonado segnala come in questo millennio «molte tipologie di oggetti» siano «ormai sparite», «altre, di natura assai diversa» siano «subentrate al loro posto» e «altre ancora, come nel caso dell’elettronica di consumo», abbiano «perso la loro identità originaria integrandosi in veri e propri sistemi. Tutto ciò sta di fatto a significare che il compito di progettare non si rivolge più, come nel passato, esclusivamente all’oggetto singolo ma anche e sempre di più a un sistema di oggetti. Ossia, per dirla con Gilbert Simondon, a una aggregazione formale, funzionale e strutturale di vari individui tecnici. Il che, in pratica, non è altro che il risultato di una de-individuazione»[47].

[47] Maldonado Tomàs, Progettare oggi, in AAVV. Le risorse del progetto. L’esperienza di Pierluigi Spadolini professore architetto, ed.Taed, Firenze 2001.

Quasi una diretta conseguenza di questo processo di de-individuazione che oggi costituisce un importante scenario del progetto – e di cui la gamma Domino rappresenta una sorta di ormai lontano precursore – è, infine, la questione sollevata dalla terza ragione di oblio di questo Compasso d’Oro toscano. Come nota sempre Stefano Bonini «negli alberghi economici, e non solo, stanno sfortunatamente dilagando i distributori automatici delle bevande calde. E’ un errore clamoroso proprio per gli hotel di fascia economy e midscale in quanto sottolinea l’assenza di servizio tipica delle mense industriali e ospedaliere»[48]. Un’associazione forse eccessiva ma che evidenzia il paradosso vending in ambito HoReCa più sopra citato. Se, a quasi trent’anni dalla loro ideazione, le “macchine” per la prima colazione di Valboni e Zanussi appaiono tuttora efficaci per espletare un servizio con razionalità e ordine, occorre anche ammettere che oggi la prima colazione è divenuta una “risorsa emozionale” che la gamma Domino non poteva e non può garantire a prescindere da qualsiasi “condizione al contorno”: perché i plus essenziali del progetto sono e rimangono collusi e sodali alle implicite qualità tecnologiche dell’automazione.

[48] Stefano Bonini, Grazie al marketing il breakfast resta un servizio speciale e distintivo, in "L'Albergo" 50, giugno/luglio 2016.

Va ribadito peraltro che tutta la gamma di Valboni non era espressamente pensata per l’utente finale (le brochure recuperate presso Necta - N&W Global Vending, che oggi raccoglie l'eredità Zanussi nel settore, sono chiarissime in proposito) ma si rivolge in particolare al personale addetto alle ordinazioni ai tavoli. Almeno nelle intenzioni dell'autore, cioè, Domino rappresenta un articolo pensato espressamente per interfacciarsi con un professionista, ovvero con un soggetto preventivamente addestrato all’utilizzo della “macchina”, che pertanto può sempre offrire in media res un proprio contributo individuale al fine di rendere “evento” un servizio di per sé “freddo” (standard) nella sua mera e diretta meccanica d’utilizzo autonomo.

Specie nell’attuale settore turistico alberghiero, il momento della prima colazione rappresenta ormai la pressoché unica modalità consentita all’ospite per accedere a un plus di calore umano, rivestendo di conseguenza un ruolo di «strumento irrinunciabile per gli alberghi economici perché addolcisce l’effetto delle camere spartane e la scarsità di accessori»[49]. In tal senso la raccomandazione di Bonini rivolta agli albergatori «di esaltare quelle due-tre ore che precedono la partenza e/o l’avvio di una felice permanenza, un percorso speciale e generoso che gli ospiti automaticamente traducono in ospitalità leale da ripetere e raccomandare ad amici e conoscenti»[50] appare quanto mai opportuna ma è anche il segnale di una difficoltà più generale del settore a offrire quella qualità di relazione specifica e premiante che, perlomeno fino ad ora, non può essere offerta o consentita da nessun artefatto quand’anche ottimamente progettato, e con merito, come nel caso di Domino.

[49] Stefano Bonini, Op. cit.

[50] Stefano Bonini, Op. cit.

Se è vero che il genio progettuale eminentemente ancillare di Luciano Valboni appartiene a buon diritto alla tradizione toscana (in cui, come detto, il progetto sintattico e sistemico ha avuto maestri e pionieri come Koenig e Spadolini) va comunque notato che tale “capacità territoriale” si attesta su una linea e un approccio alla “partitura” formale e funzionale che è anche internazionale, plurisecolare e ha ramificazioni persino in ambito artistico. Su un fronte squisitamente percettivo, infatti, una medesima invisibile linea tiene insieme – solo per citare gli esempi più noti [51] – le Tafelmusik (1733) di Georg Philipp Telemann, la Music for Airports (1978) di Brian Eno e una quantità crescente di «oggetti e servizi contemporanei (...) fruiti nella “distrazione”, di frequente senza accorgerci più di tanto dei loro caratteri funzionali ed estetici»[52]. Prodotti talvolta essenziali, talaltra meramente accessori con i quali siamo soliti confrontarci “fuori casa” nei diversi “non luoghi” della città contemporanea e/o nei luoghi destinati alla pausa dal lavoro e all’ospitalità: «artefatti contemporanei che popolano città, luoghi pubblici e privati, come, solo per fare qualche esempio, la segnaletica, l’attrezzatura urbana», coerentemente con quanto accade con le «vending machine, macchine distributrici ormai di un po’ di tutto, dal denaro alle sigarette, al caffè»[53].

[51] L’uso di accompagnare banchetti e simposi con musiche è attestato fin dai tempi degli Egizi, degli Ebrei, dei Greci e dei Romani.

[52] Alberto Bassi, Op. cit., 2011.

[53] Alberto Bassi, Op. cit., 2011.

In molti dei contesti appena citati, se non tutti, «produrre senza vanità, inutili esibizionismi» equivale a «porsi con rispetto, cultura e civiltà nei confronti di chi utilizza le cose»[54]. Pertanto sul talento misurato e quasi “trasparente” di autori come Luciano Valboni è stata ed è riposta una responsabilità divenuta sempre più centrale nella nostra società: quella di alveare ed armoniosamente evolvere le relazioni uomo/macchina. Relazioni crescenti nella contemporaneità e forse oggi inquietanti per numero, intensità e incidenza perché, nel complesso, tali strumentazioni sono ormai in grado di “disegnare” una cornice non solo ideale ma anche reale alla nostra stessa capacità di desiderare o addirittura immaginare alternative per la nostra esistenza quotidiana dentro e fuori le mura domestiche.

[54] Alberto Bassi, Op. cit., 2011.

0000	nessun documento | vuoi aiutarci a completare questa sezione?

001	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Domino espresso - Modulo Caffè espresso 1 (grafica promozionale), 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
002	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Domino mattino - Modulo Solubili, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
003	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Domino espresso - Modulo Caffè espresso 2, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
004	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Domino espresso - Modulo Caffè espresso 1, pulsantiera, programmer (in alto) e vista interna, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
005	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
006	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | (da sinistra) Domino espresso - Modulo Caffè espresso 2 / Domino mattino - Modulo Solubili / Domino percolato - Modulo Percolato in Caraffe / Domino fresh-brew - Modulo Fresh-Brew / Modulo Scaldatazze / Domino freddo - Modulo bevande fredde / Modulo Solubili / Modulo di Pagamento, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
007	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | (da sinistra) Domino espresso - Modulo Caffè espresso 2 / Domino mattino - Modulo Solubili / Domino percolato - Modulo Percolato in Caraffe, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
008	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | (da sinistra) Domino fresh-brew - Modulo Fresh-Brew / Modulo Scaldatazze / Domino freddo - Modulo bevande fredde / Modulo Solubili / Modulo di Pagamento, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
009	Il Compasso d'Oro ADI (XV edizione) 1989, attribuito alla linea Domino con la seguente motivazione: «Per i pregi di componibilità, comunicazione e coordinamento dell'immagine negli ambiti d'impiego più diversi» (la giuria è costituita da Thomas Maldonado, Pierluigi Molinari, Cesare Stevan, Hans Wichmann e Fredrik Wildhagen) | © & courtesy Necta - EVOCA Group
010	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Dimensioni Domino espresso - Modulo Caffè espresso 2 / Domino freddo - Modulo bevande fredde, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
011	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Dimensioni Domino fresh-brew - Modulo Fresh-Brew / Domino mattino - Modulo Solubili, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group
012	Luciano Valboni, Domino - distributore bevande calde e fredde | Dimensioni Domino percolato - Modulo Percolato in Caraffe / Modulo di Pagamento, 1988-‘96, Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending (1984-‘99) - Bergamo | Necta - EVOCA Group - Valbrembo - Bergamo | © & courtesy Necta - EVOCA Group

Realizzata con telaio portante in alluminio anodizzato su cui è applicata la carrozzeria, facilmente asportabile (fianchi in poliuretano semiespanso, frontale, schienale e ripiano scaldatazze in acciaio inossidabile) che ne consente un agevole accesso (sia per la manutenzione che per le operazioni di pulizia), la linea Domino si distingue principalmente per la caratteristica di offrire, prescindendo dall'esperienza dell'operatore, caffè espresso di qualità costante nel tempo, secondo gli standard desiderati. Nel complesso la linea di dispenser integrabili può erogare qualsiasi tipo di bevanda calda e fredda, dal caffè espresso al caffè filtrato, dalle bevande solubili alle bevande lisce e gassate alla birra e al vino, soddisfando le esigenze dei differenti mercati e che si verificano nelle utenze quali l'Hotel e le Comunità, il Ristorante tradizionale e quello aziendale, il Bar e la Caffetteria.

La linea Domino consente pertanto all'operatore di usufruire di:
• Moduli specializzati per tipologia di bevande erogate che possono essere integrati tra loro così da soddisfare la necessità di disporre di un servizio completo offrendo bevande diverse;
• Moduli "intelligenti" comandati da una elettronica avanzata che consente controllo e automazione totale;
• Moduli che facciano risparmiare tempo, evitino sprechi e possano essere fatti funzionare da chiunque, perché, grazie all'elettronica, l'esperienza viene registrata nella memoria della macchina, garantendo, così bevande di qualità indipendentemente dalla capacità dell'operatore;
• Moduli diversi collegati fra loro, che mediante il "programmer" del modulo espresso o fresh-brew, possano realizzare, grazie all'accessorio "sistema di gestione camerieri", un trattamento centralizzato dei dati relativi ai consumi, a quanto prelevato e da chi;
• Moduli dal design avanzato e professionale che ne permetta l'impiego in ogni tipo di ambiente;
• Moduli con un alto grado di affidabilità e funzionalità.

In sintesi, la gamma Domino è costituita da elementi tecnologicamente avanzati, ma anche altamente modulari che preparano e distribuiscono automaticamente bevande calde e fredde senza impegnare l'operatore in alcuna operazione manuale. In particolare, Domino espresso, svuota il filtro, macina, dosa e comprime il caffè, aziona il passaggio dell'acqua, arresta al momento opportuno l'erogazione automaticamente consentendo all'operatore di curare i rapporti con la clientela e offrire al contempo un servizio eccellente e un caffè di alta qualità.

Nelle utenze sopra specificate, il plus garantito dalla linea Domino equivale pertanto a scongiurare tre specifici problemi gestionali tipici della prima colazione: a) clienti in lista d'attesa; b) banconi sporchi e da riordinare; c) qualità del caffè variabile a seconda dell'esperienza dell'operatore. E ciò in quanto la linea consente all'operatore non più impegnato manualmente: 1) di soddisfare, mentre la macchina prepara da sola il caffè, tutte le altre ordinazioni; 2) di disporre del tempo utile per il riordino e la pulizia; 3) di ottenere, premendo semplicemente un pulsante, caffè espresso di alta qualità indipendentemente dalla capacità dell'operatore.

01 Domino espresso - Modulo Caffè espresso 1/2 



Disponibile nei modelli a uno o due gruppi caffè, ognuno dei quali produce in base alla scelta dell'operatore uno o due caffè per infusione, i modulo espresso è una apparecchiatura superautomatica grazie alla quale è sufficiente premere un pulsante per ottenere il caffè, senza impegnare l'operatore in qualsiasi operazione manuale. Distribuendo contemporaneamente acqua calda e caffè i moduli sono in grado di erogare ogni ora circa 220 (E1) / 440 (E2) tazze caffè e 45 litri acqua (entrambi i moduli). La loro velocità di prelievo pari a 1 lt./25" mentre la velocità di preparazione si attesta sui 27" circa (caffè singolo) e 32" (caffè doppio).

Ogni modulo è dotato di macinino caffè con regolazione micrometrica del grado di macinatura; dosatore caffèvolumetrico, a camera variabile che permette di preparare la dose voluta perogni tipo di caffè; caldaia vapore e acqua calda da 5 lt con produzione di vapore e in continuo (caricamento da rete); caldaia caffè da litri 1,2; pompa caffè rotativa; fondi secchi (è prevista anche una bacinella raccogli fondi); capacità bacinela fondi di ca. n. 200 scarichi (la macchina segnala quando la vaschetta è piena e blocca l'erogazione); scaldatazze con termostato di regolazione e cestello.

Provvisto di due differenti caldaie, una per la produzione di caffè, l'altra per acqua calda e vapore, Domino espresso consente di avere sempre la corretta temperatura dell'acqua per la preparazione di caffè espresso in un caso, e di infusi e vapore in abbondanza nell'altro. L'acqua per infusi è ottenuta miscelando l'acqua della caldaia, la cui temperatura è molto elevata in quanto produce anche vapore, con acqua fredda. Contrariamente ai modelli con macinino esterno alla macchina, che macinano una certa quantità di caffè in anticipo lasciandola esposta all'umidità, Domino espresso macina al momento ciò che occorre, preservando, così, le caratteristiche qualitative della miscela.
A eccezione della regolazione della macinatura, che è manuale, tutte le regolazioni avvengono mediante impostazione dei parametri sul "programmer". Pulsanti di lavaggio consentono a fine servizio un rapido ed efficace lavaggio delle parti interne interessate dal passaggio del caffè.

Domino espresso unisce, grazie all'elettronica, tutte le operazioni necessarie per ottenere un buon caffè, fissandole, al livello più alto di qualità, nella memoria della macchina. In questo modo l'operatore, premendo semplicemente un pulsante, attiva gli automatismi della macchina affinché vengano eseguite tutte le operazioni necessarie per ottenere un buon caffè; l'operatore può, così, dedicare il proprio tempo ad altre mansioni, riordinare e soddisfare altri tipi di ordinazione.
L'intelligenza a microprocessore non esegue solo regolazione e automazione totale, ma consente anche di:
• accedere, attraverso il "programmer", alla memoria della macchina e comunicargli i parametri di regolazione desiderati relativamente al dosaggio dell'acqua e del caffè e alla compressione della pastiglia;
• tenere sotto controllo tutti i valori relativi alla produzione del caffè;
• visualizzare sul display del "programmer" gli stati della macchina;
• eseguire l'autodiagnosi segnalando le anomalie di funzionamento esistenti, nonché il numero e la tipologia di segnalazioni di guasto verificatesi;
• accendere la macchina all'orario prestabilito programmato.

Dimensioni (comprensive di fianchi asportabili 2+2 cm):
•E1 68,5 (l) x 46 (p) x 69 (scaldatazze) / 91 (compreso contenitore caffè) (h) cm
•E2 1135 (l) x 46 (p) x 69 (scaldatazze) / 91 (compreso contenitore caffè) (h) cm
Peso a vuoto:
•E1 95 Kg
•E2 145 Kg

Caratteristiche:
• Gruppo a camera di infusione variabile che eroga indifferentemente 1 o 2 caffè per infusione
• Macinino con dosatore volumetrico variabile per caffè in grani
• Contenitore con dosatore volumetrico per caffè decaffeinato o imbuto per decaffeinato in bustine
• Caldaia autonoma per acqua/vapore
• Erogazione di vapore, che a secondo del modello, è ottenuto mediante pulsante o leva
• Produzione oraria di 220 tazze/h per ogni singolo gruppo
• Produzione acqua: 45 lt/h a 95°C
• Autonomia: la capacità di ogni contenitore è:
  – caffè in grani: 1,6 Kg
  – caffè decaffeinato: 0,25 Kg

Tensione di alimentazione:
• 380 Volt ± 10% trifase - 50 Hz
Massima potenza installata:
• 6.800 Watt
Alimentazione idrica:
• da rete, con pressione d'acqua compresa tra 0,5 e 8,5 Atm

02 Domino Mattino - Modulo Solubili 



Modello realizzato per risolvere principalmente il problema della prima colazione, preparando bevande sempre fresche da prodotti solubili (istantanei o liofilizzati). Ogni modello della gamma "solubili" può erogare un differente numero di bevande, latte liquido o in polvere.
Dimensioni:
• 68,5 (l) x 46 (p) x 69 (h) cm
Caratteristiche:
• Caldaia acqua di grande capacità
• Fino a 3 contenitori polveri più acqua calda
• Fino a 3 mixer
• La versione a latte liquido eroga anche due bevande da prodotti solubili
• Eroga più bevande contemporaneamente
• Produzione: 100 lt./h
• I contenitori hanno le seguenti capacità:
  – Cioccolata 4,5 Kg
  – Latte 1,8 Kg
  – Caffé 1,6 Kg

03 Domino Percolato - Modulo Percolato in caraffe 



Modulo per produzione di caffè in caraffa da filtri in carta caricati manualmente
Dimensioni:
• 29 (l) x 46 (p) x 69 (h) cm
Caratteristiche:
• È provvisto di due piastre di riscaldamento, una in posizione di caricamento, l'altra nella parte superiore del modulo, per il mantnimento della temperatura della bevanda nella caraffa
• Produzione oraria: 1.5 litri in 3 minuti

04 Domino Fresh-Brew - Modulo Fresh-Brew 



Questo modulo prepara e distribuisce caffè filtrato - nero e senza crema - da caffè macinato caricato automaticamente sul filtro. Il modulo si rivolge a tutti quegli esercizi con clientela internazionale che esprime una elevata domanda di caffè diverso dall'espresso. L'apparecchiatura produce caffè in tazza e/o in caraffa o accumulato, per i momenti di maggiore richiesta, nella riserva che ha la capacità regolabile e si ricarica automaticamente.
Dimensioni:
• 68,5 (l) x 46 (p) x 69 (h) cm
Caratteristiche:
• Gruppo fresh-brew con parametri di dosaggio impostabili da programmer
• Caldaia acqua/vapore
• Contenitore con dosatore per caffè macinato
• Serbatoio in porcellana da 5 lt
• Uscita separata per prelievo da riserva di caffè percolato
• Produzione oraria: 42 lt./h caffè
• Produzione acqua: 100 lt./h a 95°C
• Autonomia: contenitore caffè fresh-brew 3 kg

05 Domino Freddo - Modulo Bevande fredde 



Stazione di erogazione (4 o 6) di bevande fredde in bicchiere o caraffa. Il vero cuore di questo modulo, concepito per essere posizionato anche in locali attigui, è l'unità refrigerante che viene collegata alla testata di erogazione. Può essere distribuita qualsiasi tipo di bevanda: liscia, gassata, succhi, vino e birra.
Dimensioni:
• 47 (4 e.) / 68,5 (6 e.) (l) x 46 (p) x 69 (h) cm
Caratteristiche:
• Produzione oraria:
  – birra - 30 lt
  – bibite - 360 bicchieri da 180 cc
• Massima erogazione:
  – 4 sciroppi
  – 2 vini
  – 1 acqua gassata
  – 1 acqua fredda
  – 2 birre

06 Modulo di Pagamento 



Questo modulo, previsto per la linea self-service, accetta pagamenti in moneta o sistema equivalente, abilitando le diverse macchine all'erogazione automatica.
Dimensioni: 29 (l) x 46 (p) x 69 (h) cm

1948	name:	Luciano Valboni

1984-‘99	Zanussi Grandi Impianti - Electrolux Zanussi Vending
1999-‘17	Necta - EVOCA Group

1989	XV Premio Compasso d'Oro ADI - Milano

0000	nessun documento | puoi aiutarci a completare questa sezione?

1990	Domino Espresso - brochure aziendale, Zanussi G. I. - Electrolux Zanussi Vending
1989	ADI, Comune di Milano, Catalogo XV Premio Compasso d'Oro Silvia Editrice - Milano
1988	Gamma Domino - brochure aziendale, Zanussi G. I. - Electrolux Zanussi Vending

Luciano Valboni
57100 - Isola d'Elba - Livorno
+39 335 6984160 (phone)
luciano.valboni@gmail.com

EVOCA Group
Via Roma, 24, 24030 Valbrembo - Bergamo
+39 035 606111 (phone)
www.evocagroup.com